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Da Wikipedia
L'Alfetta
Il contesto
Alla fine degli anni sessanta, in Alfa,
era evidente che le linee delle 1750 e Giulia -
pur longeve - non avrebbero retto l'impatto con le nuove tendenze stilistiche;
d'altro canto era necessario introdurre novità che non si allontanassero troppo
dai gusti della clientela già fidelizzata. In un primo tempo si decise di
rinnovare la 1750 con aggiornamenti estetici ed una nuova motorizzazione più
europea che, nel 1971, veniva
presentata con la denominazione 2000. Nel contempo si dette anche il via alla
realizzazione del progetto 116.
Il Centro Stile Alfa, guidato da
Giuseppe Scarnati, disegnò così una vettura intermedia tra la 2000 e la Giulia,
pronta a sostituire il primo modello che avesse perso troppo terreno sul
mercato. Linee tese e spigolose e una particolare attenzione allo spazio
interno, per vestire uno schema tradizionale e prestigioso da berlina sportiva, settore in cui le Alfa Romeo, all'epoca, erano considerate
all'avanguardia.
Occorre anche citare il pur marginale
contributo di Giorgetto
Giugiaro che, incaricato nel 1968 di progettare la nuova Alfa coupé,
stava terminando gli esecutivi di quella che sarebbe poi diventata l'Alfetta GT.
Al fine di tranquillizzare la clientela
circa l'abbandono dello schema tradizionale per il moderno transaxle, si fece
ricorso alla citazione delle glorie sportive Alfa Romeo scegliendo il nome
di Alfetta e così ufficializzando il nomignolo con cui i tifosi
avevano soprannominato le Alfa Romeo 158 e 159 da Formula 1 che
vinsero il campionato mondiale nel 1950 e 1951con Nino Farina e Juan
Manuel Fangio.
Il nuovo modello si dimostrò subito di
ottimo livello, sia per estetica, sia per prestazioni, ma le polemiche
infuriarono ugualmente, dividendo gli alfisti. Infatti, pur guadagnando
enormemente in tenuta e
stabilità, a causa dei più complessi leveraggi di comando del cambio, l'Alfetta
aveva perduto parzialmente la dolcezza d'innesto dei rapporti, rispetto ai
modelli precedenti.
Parallelamente al nuovo modello,
l'azienda decise di lasciare in produzione anche la 2000 e la Giulia fino
al 1977, causando - in
parte - una serie di fenomeni di parziale concorrenza interna.
L'automobile
La nuova Alfetta avrebbe dovuto essere
la vedette del Salone dell'automobile di Torino dell'ottobre 1971 e già in agosto erano state diffuse
le caratteristiche tecniche alla stampa specializzata. Tuttavia, la scelta di
dare il maggior risalto alla contemporanea Alfasud, il timore
di oscurare la 2000 e una serie di scioperi nella fabbrica di Arese, fecero
slittare la presentazione di oltre sei mesi.
Presentata nel maggio 1972, l'Alfetta fu senza dubbio una delle Alfa
Romeo più innovative del dopoguerra. Essa infatti pur rispondendo a tutti i
canoni tipici del marchio rappresentava un deciso passo avanti rispetto ai
modelli precedenti. La sua linea, che avrebbe ispirato a lungo l'evoluzione di
gamma, segnò un punto di rottura con il precedente stile Alfa Romeo. Rimase sul
mercato fino al 1984 quando
venne sostituita dalla 90.
La linea dell'Alfetta è squadrata,
scevra da venature e pieghe, moderna per l'epoca ma classicizzata dal frontale
tipicamente Alfa Romeo con i doppi fari tondi in cornici cromate e lo scudetto
in posizione centrale. Guardavano alla tradizione i paraurti a lama in acciaio
inossidabile, le tre barre cromate sulla calandra e
le maniglie delle portiere. Così se la parte anteriore era bassa, raccolta e
relativamente slanciata la parte posteriore presentava la novità più evidente:
la coda alta che oltre a garantire vantaggi sul piano aerodinamico offriva
una capacità di carico quasi da record per la categoria.
All'interno non ci si era discostati dalla
tradizionale formula Alfa Romeo. La plancia con il monogramma “Alfetta” in
corsivo e gli inserti tipo legno era completata da un quadro strumenti molto
fornito e soprattutto ben leggibile che comprendeva oltre al tachimetro e
al contagiri gli
indicatori di livello carburante, temperatura acqua e pressione lubrificante
oltre a una completa dotazione di spie. Il posto guida, ben realizzato,
favoriva la guida a braccia distese e prevedeva anche la regolazione in altezza
del volante. L'abitacolo era nel complesso accogliente e spazioso; l'assenza
del cambio all'uscita
del motore infatti
aveva permesso di snellire abbastanza la parte anteriore del tunnel centrale
tanto da dare una notevole sensazione di spazio ai posti anteriori. Quelli
posteriori pur disponendo invece di molto spazio in senso longitudinale erano
inficiati dall'ingombrante presenza del cambio posteriore che aveva costretto i
progettisti dell'Alfa Romeo a gonfiare il tunnel centrale tanto da
compromettere il comfort del passeggero posteriore seduto al centro.
Il portabagagli seppur di generose
dimensioni non era sfruttabile a pieno per via della soglia di carico molto alta
che poteva costringere a fastidiosi sollevamenti e tendeva ad aumentare il
pericolo di danneggiare la carrozzeria negli usi più intensi. Sotto il piano di
carico trovavano posto la ruota di scorta e il serbatoio carburante di 50
litri. L'ampia vetratura garantiva una buona visuale in ogni direzione e solo
in retromarcia la coda spiovente necessitava di una buona dose di pratica prima
di poterne valutare correttamente l'ingombro.
La dotazione, seppur non eccezionale,
era buona per l'epoca e sarebbe stata arricchita con il passare delle
generazioni sino ad arrivare alla ricca ed elaborata Quadrifoglio oro del 1983. Nel 1972 il prezzo di listino era
di L. 2.441.600,
cui occorreva aggiungere L. 26.880 per l'interno in texalfa, L. 19.040 per
il lunotto
termico, L. 16.240 per gli appoggiatesta regolabili e
L. 106.400 per la finizione
metallizzata, unici accessori disponibili.
Quello che lasciava a desiderare, come
spesso era accaduto nella storia dell'Alfa, erano le finiture, solo
approssimative e non esenti da difetti di lavorazione e caratterizzate da
materiali di scarsa qualità.
La meccanica
Il classico bialbero Alfa Romeo di 1779 cm³ derivava
direttamente da quello della 1750 modificato nella forma dei collettori di
scarico e della coppa dell'olio per permettere di elevarne la potenza a
122 CV DIN.
Costruito completamente in lega di alluminio aveva
le canne dei cilindri di ghisa riportate
e sfilabili. I due alberi a camme in testa mossi da una doppia catena
silenziosa anteriore, che garantiva un'eccellente affidabilità e durata,
azionavano direttamente le valvole attraverso i bicchierini in bagno d'olio ad
essi interposti, il che se da un lato rispondeva a esigenze di affidabilità e
sportività, dall'altro rendeva la regolazione del gioco un'operazione lunga e
costosa, anche se meno frequente. Infatti qui i piattelli di spessore risultano
posizionati all'interno dei bicchierini (a differenza del Motore
bialbero FIAT che li ha visibili e a contatto con le camme),
per cui la sostituzione implica lo smontaggio preliminare degli alberi. Le due
valvole erano inclinate a 80° per formare una camera di combustione emisferica
ad alto rendimento, e quelle di scarico erano raffreddate dalla presenza nello
stelo di sodio che ne diminuiva la temperatura durante l'uso passando dallo
stato solido a quello liquido e garantendo così una più lunga durata delle
stesse.
Il tutto era raffreddato dal liquido
contenuto nel circuito sigillato provvisto di radiatore con la ventola per la
prima volta mossa da motore elettrico azionato
da un interruttore termostatico, anziché direttamente dal motore come sulla
1750. L'alimentazione era assicurata da due carburatori orizzontali
doppio corpo Weber 40 DCOE/32 riforniti di carburante dalla pompa meccanica. Vennero allestite anche
vetture destinate al mercato d'oltreoceano provviste di iniezione meccanica
Spica.
La novità vera fu l'inedito
posizionamento del cambio a 5 marce al retrotreno in blocco con differenziale e frizione azionata
idraulicamente (soluzione sostenuta da Giuseppe Busso),
allo scopo di restituire un'ottimale distribuzione che migliorasse la tenuta di
strada, rispetto ai precedenti modelli derivati dalla Giulia. Inedito era
anche lo schema delle sospensioni posteriori che adottavano per la
prima volta su una vettura stradale della Casa un raffinato ponte De Dion costituito
da un traliccio di tubi d'acciaio triangolare con il vertice imperniato
anteriormente che mirava alla riduzione delle masse non sospese in modo da
garantire una maggiore motricità alle ruote posteriori. A tale scopo i freni a disco posteriori
vennero spostati dalle ruote alla flangia dei semiassi sul differenziale. Su
vetture di serie, fino ad allora, tali soluzioni tecniche erano state riservate
a modelli di classe elevata come la Lancia Aurelia degli anni cinquanta della
quale l'Alfetta riprende il sofisticato schema tecnico transaxle con
cambio montato in blocco al differenziale posteriore per meglio ripartire e
distribuire le masse sugli assi della vettura nello schema 50/50.
Le sospensioni anteriori indipendenti
seguivano lo schema a bracci trasversali oscillanti e usavano come elementi
elastici delle barre di torsione. Il tutto era completato da ammortizzatori
idraulici e barre stabilizzatrici sia sull'avantreno che sul retrotreno.
I freni erano tutti a disco con comando
idraulico a doppio circuito, servofreno a depressione e limitatore di frenata
sul retrotreno. Il freno a mano agiva sulle ruote posteriori.
Comportamento su strada
Il comportamento su strada dell'Alfetta
continuava la tradizione della casa con doti dinamiche sportiveggianti. La
tenuta di strada era eccellente anche se caratterizzata da un certo rollio. Il
comportamento in curva era neutro anche alle alte velocità, proprio in
virtù della perfetta distribuzione dei pesi. Se portata al limite l'Alfetta
presentava un sensibile sottosterzo iniziale che ne rendeva la guida facile
anche a piloti non troppo esperti. Solo esagerando con l'acceleratore o nelle
curve molto strette, dove si sentiva il bisogno di un differenziale
autobloccante, il retrotreno poteva riservare qualche sorpresa. Il motore, pur
avendo guadagnato 4 CV rispetto alla versione montata sulla 1750, si dimostrò
grintoso agli alti ed elastico ai bassi e medi regimi, permettendo sia una
guida sportiva che una rilassata con un occhio al comfort e ai consumi.
Nelle prove su strada l'Alfetta si
dimostrò capace di raggiungere i 184 km/h di
velocità massima e con un'accelerazione da 0 a 100 km/h in
9,8 secondi si posizionò ai vertici della sua categoria. Il suo tallone
d'Achille stava invece nelle caratteristiche del cambio che poco si addicevano
al tipo di auto. Esso era infatti caratterizzato da una manovrabilità lenta e
imprecisa specialmente in scalata per le prime due marce, dovuta più ai vari
rinvii di comando che al disegno degli organi meccanici, molto simile al cambio
della serie Giulia. Il posizionamento, poi, faceva sì che la carrozzeria
amplificasse la rumorosità degli ingranaggi. Anche la frizione non era esente
da critiche per il suo brusco innesto, mentre i giunti in gomma dell'albero di
trasmissione hanno sempre sofferto di breve vita, nonostante le numerose
modifiche a cui furono sottoposti nell'arco della produzione. L'impianto
frenante aveva un'ottima potenza, una buona modulabilità ed era insensibile
alla fatica anche se era caratterizzato da una certa durezza di azionamento,
aspetto che piaceva agli alfisti appassionati perché permetteva di dosare con
precisione la pressione sul pedale. Lo sterzo, per la prima volta a cremagliera su
un'Alfa, era molto preciso e pronto.
L'evoluzione della gamma
Versione
|
Anni di produzione
|
Esemplari
|
Alfetta 1.8
|
dal 1972 al 1984
|
183.337
|
Alfetta 1.6
|
dal 1975 al 1984
|
82.512
|
Alfetta 2000
|
dal 1977 al 1978
|
29.584
|
Alfetta 2000 L
|
dal 1978 al 1981
|
82.660
|
Alfetta 2000 Li America
|
dal 1978 al 1981
|
8.862
|
Alfetta 2000 Turbodiesel
|
dal 1979 al 1984
|
22.297
|
Alfetta 2.0
|
dal 1982 al 1984
|
37.193
|
Alfetta Quadrifoglio Oro
|
dal 1982 al 1984
|
20.629
|
Alfetta 2.0 CEM
|
nel 1983
|
991
|
Alfetta 2.4 Turbo Diesel
|
dal 1983 al 1984
|
7.654
|
Totale
N.B.:Dati Ruoteclassiche, Un secolo di auto italiana |
475.719
|
Nel 1975, in piena crisi petrolifera, venne
presentata la versione semplificata dell'Alfetta, che come prevedibile montava
un motore con cilindrata ridotta a 1570 cm³ e
potenza di 109 CV (secondo norme DGM). Il nuovo propulsore deriva direttamente
dalla versione già montata sulla serie Giulia (nella versione più potente,
utilizzata fino al 1974 su GT e Spider): rispetto al propulsore di
1779 cm³ risultano ridotti sia l'alesaggio (78 mm) che la corsa
(82 mm). Esternamente la vettura era facilmente distinguibile per la
presenza di una sola coppia di fari sul frontale, mentre per il resto, seppur
dotata di allestimento più economico, era abbastanza simile alla sorella
maggiore. Il comportamento su strada delle due vetture era molto simile. A
risentire della diminuzione di potenza erano soprattutto le doti di ripresa da
bassa velocità nelle marce più alte. Il presunto beneficio in termini di
consumo invece veniva vanificato dalla necessità di mantenere regimi elevati
per ottenere un comportamento brillante.
Contemporaneamente l'Alfetta 1.8 subì
qualche lieve ritocco estetico facilmente individuabile nello scudetto Alfa ora
più largo. Il suo motore invece subì una riduzione di potenza che lo riportò a
118 CV.
Nel 1977, al salone di Ginevra, viene presentata l'Alfetta 2.0.
La versione due litri porta molte novità. Per iniziare essa è facilmente
distinguibile dalle sorelle minori per il frontale ridisegnato che ora oltre a
essere più basso e più lungo di ben 10 cm presenta due fari rettangolari.
I paraurti sono sempre in acciaio inox ma hanno ora gli angoli in
materiale plastico e
incorporano inserti in poliuretano e anteriormente anche gli indicatori di direzione. I finestrini anteriori
perdono il deflettore e i gruppi ottici posteriori sono maggiorati. All'interno
spicca subito la nuova plancia tutta di materiale plastico e il volante di
nuovo disegno. Nel complesso la linea appare più moderna anche se più anonima e
meno sportiva. Il motore deriva direttamente dalla versione di 1779 cm³ di
cui mantiene anche l'originaria potenza di 122 CV. L'aumento di cilindrata
viene ottenuta aumentando l'alesaggio a 84 mm ma mantenendo invariata la
corsa di 88,4 mm. Viene migliorata l'insonorizzazione delle parti
meccaniche e le sospensioni sono maggiormente votate al comfort. Nel frattempo
le versioni 1.6 e 1.8 vengono unificate negli allestimenti e nell'aspetto.
Nel 1978 la 2.0
diventa “Lusso” grazie a finiture più accurate e il motore viene potenziato a
130 CV.
Con l'Alfetta 2.0 turbodiesel nasce
nel 1979 la prima
vettura italiana sovralimentata a gasolio.
Esternamente è distinguibile dalla versione a benzina solo per le feritoie di
aerazione supplementari presenti sul paraurti anteriore. Questa vettura è
spinta da un motore costruito dall'italiana VM Motori che
fornisce 82 CV e spinge la vettura ad oltre 155 km/h, facendone la 2000
diesel più veloce all'epoca in produzione. L'aumento di peso dovuto al nuovo
propulsore impone un irrigidimento delle sospensioni e una maggiore
demoltiplicazione dello sterzo. Anche i rapporti del cambio vengono adeguati.
Nello stesso anno la versione 1.8 riacquista gli originari 122 CV di potenza
massima ora a 5300 giri/min anziché a 5600 giri/min.
L'Alfetta e gli USA
La presenza dell'Alfetta sul mercato
nordamericano risale al 1975, quando inizia la distribuzione di un modello
analogo alla 1.8 dotato però del motore di 2 litri a iniezione meccanica. Nel
1978 la vettura, conosciuta anche come Sports Sedan, viene aggiornata sulla
falsariga della 2.0 L e proposta anche con catalizzatore. Il motore, pertanto,
vede scendere la sua potenza a 111 CV a 5000 giri/min (norme DGM), anziché i
130 CV a 5400 giri/min (norme DGM) della 2.0 L a carburatori. In totale sono
3636 le unità esportate della prima serie e 3919 quelle della seconda serie (di
cui 1903 con dispositivo antinquinamento). Nel 1981 l'Alfa Romeo commercializza
sul mercato italiano una serie di vetture identiche al modello USA e, pertanto,
battezzate Alfetta 2.0 Li America. Questa versione, prodotta in
1307 esemplari nel solo colore grigio chiaro metallizzato, si distingue dalla
normale 2.0 per i doppi proiettori circolari, i cristalli bruniti, i cerchi in
lega leggera, la sottile fascia antiurto alle fiancate ed i paraurti ad
assorbimento di energia. Come la versione per gli USA, è dotata di impianto
di iniezione
meccanica Spica (con
cut-off tarato a 1300 giri/min); l'unica differenza sta nell'assenza del
catalizzatore (presente invece nella Sports Sedan), per cui la sua potenza
massima è ora di 125 CV a 5300 giri/min (sempre secondo norme DGM).
Restyling e aggiornamenti
Nel novembre 1981 tutta la gamma viene unificata
usando per tutte le motorizzazioni la rinnovata scocca della 2000 aggiornata in
vari dettagli estetici quali le fasce paracolpi laterali e le fasce sottoporta in
plastica nera. Meccanicamente le modifiche maggiori le subiscono il cambio con
i rapporti allungati e le sospensioni ora più morbide e votate completamente
al comfort. A
risentirne maggiormente fu il comportamento sportivo della vettura. I potenti
motori della 2.0 e della 1.8 avevano perso la loro grinta acquistando però
notevole elasticità e progressività. Le prestazioni rimanevano comunque
elevate. Il comportamento stradale perse la sua agilità da sportiva e
l'inserimento in curva divenne molto lento e notevolmente sottosterzante senza
però mai perdere la sua proverbiale tenuta di strada.
Sei mesi più tardi, nel giugno del 1982, la gamma si arricchisce di una nuova
versione, la Quadrifoglio Oro, mossa dal motore 2000 ad iniezione
meccanica della 2000 LI America. A caratterizzarla esternamente ci
pensano i doppi proiettori anteriori, gli inediti cerchi in lega, alcuni
particolari di color marrone scuro, come la fascia sottoporta, i paraurti, la
calandra, le cornici dei fari posteriori. La dotazione di serie è arricchita
dall'adozione di check control, regolazione elettrica degli schienali anteriori
e dell'altezza del sedile guida, vetri elettrici posteriori, chiusura
centralizzata e trip computer. La Quadrifoglio Oro raggiunge la velocità
massima di 185 km/h e consuma mediamente 10,1 litri/100 km.
Da menzionare anche una versione
semi-sperimentale denominata CEM (Controllo Elettronico del
Motore); sviluppata, nel 1981, in collaborazione con l'Università di Genova, venne realizzata in 10
esemplari derivati dal modello "2.0", con funzionamento modulare (due
o quattro cilindri) del motore a seconda delle necessità d'impiego, con il fine
di ridurre i consumi. Le auto vennero affidate a taxisti milanesi, per verificarne il
funzionamento e le prestazioni in situazioni di utilizzo reale. Terminata la
prima sperimentazione, nel 1983,
venne prodotta una piccola serie di 991 esemplari CEM, che furono affidati ad
una clientela selezionata. Nonostante questa seconda fase sperimentale, il
progetto non ebbe ulteriori sviluppi.
Nel 1983 tutta la gamma subì l'ultimo lifting
a base di fasce paracolpi laterali molto estese, cornice plastica dei fanali
posteriori e colorazione scura di molte parti della carrozzeria quali i
montanti anteriori del tetto che ne resero l'aspetto otticamente pesante e fin
troppo elaborato. Anche l'Alfetta "Quadrifoglio Oro" venne aggiornata
con l'aggiunta di uno spoiler anteriore, di sedili posteriori con poggiatesta
integrato e un nuovo quadro strumenti dalla grafica poco chiara affiancato alla
destra da un quadro ausiliario fornito di check control e di un orologio digitale.
Il motore venne dotato di accensione e alimentazione a controllo elettronico
Bosch Motronic e per la prima volta su un'automobile di serie anche di variatore di fase sull'albero a camme del
lato aspirazione.
Alla versione 2.0 turbodiesel ne venne
affiancata una con motore, sempre VM, ma di 2393 cm³ da 95 CV. Dopo essere
stata venduta in quasi mezzo milione di esemplari ed essere stata la berlina
2000 più venduta in Italia, le vendite delle ultime versioni calarono
drasticamente sancendo l'uscita di scena definitiva dell'Alfetta nel 1984. Il suo pianale e la meccanica tuttavia
ebbero una vita lunghissima che si protrasse con l'Alfa 75 sino
alla prima metà degli anni
novanta e diedero vita a una moltitudine di modelli tutti molto
apprezzati per le doti dinamiche.
Per completezza d'informazione, si
ricorda che la linea dell'Alfetta viene adottata, dal 1974, anche per la
brasiliana FNM - Alfa Romeo 2300, ma si tratta di una mera
somiglianza estetica, essendo la "2300" molto diversa per dimensioni
(41 cm più lunga e 7 cm più larga) e, soprattutto, per l'impostazione
tecnica che derivava dal modello "1900".